home

scarica PDF di questo articolo (documento di 9 pagg. + 1 di bibliografia. 600kb)

Mittelfest
SISSA, Scuola Internazionale Superiori di Studi Avanzati di Trieste
AGON, Acustica Informatica Musica Milano
Università agli Studi di Udine
Scuola Normale di Pisa
SUONI IN CORSO
percezione ed espressione dell'uomo tecnologico

ed. Mittelfest, Musica ed arti visive 1991-2001

Le foto di Armin Linke e documentano l'installazione Die Schallenenergie (l'energia del suono) realizzata per la Fiera del Libro di Francoforte da Marco Geronimi Stoll, Gianguido Palumbo e Giovanni Carpano, 1988

pag 145 e sgg.

INTERFACCE

Marco Geronimi Stoll intervistato da Stefano Scarani

Marco, hai costruito macchine come quella che fa danzare un raggio di luce mosso dalle onde sonore, che consiste semplicemente in uno specchietto sulla pelle di un tamburo esposto a un raggio di sole, o come quella che fa danzare dei chicchi di riso gridandoci sopra…

           Sono macchine di una semplicità evidente; non le ho inventate io, sono sempre esistite. Semplicemente le ho usate per suscitare il gioco e l’esplorazione spontanea; le metto in una stanza e faccio entrare la gente, che appena capisce come funziona, ridendo e giocando supera il pudore vocale e comincia ad usare la voce con buon grado di spasso, disinibizione e creatività.
Non trovi che questo oggi sia uno dei nuovi modi di essere artista? Invece di creare un’Opera, crei una situazione… Ho studiato molto quello che scrivono epistemologi, cibernetici, psicoanalisti su questi meccanismi psicologici; ti assicuro che è molto di più che dare la matassa di lana a un gattino: per permettere agli altri di essere creativi, per disinquinare il mondo dalla lobotomia televisiva, occorre creare una situazione in cui sorgano naturalmente cose come il piacere, l’esplorazione, l’espressione, la scoperta, la sfida, la complicità…  A volte bastano congegni semplicissimi.

Certi tuoi dispositivi però non sono tecnologicamente così semplici; penso al sintetizzatore pilotato tramite la pressione delle mani, o alla “macchina dell’amicizia” in cui ci si da la mano tra persone e – a seconda di quanto la si stringe calorosamente- si modifica una frase musicale che si ripete in sottofondo.

            Nelle prime installazioni di quelle macchine non ero io l’ingegnere; io ero chiamato pomposamente “direttore scientifico” e mi occupavo degli aspetti psicoacustici e comunicativi. Sono passati quasi vent’anni! A quei tempi lavoravo con Carpano e Palumbo, che erano appena usciti dal Teatro della Valdoca. Dicevo: “ci vuole una macchina che faccia l’eco così e cosà”, oppure “sarebbe bello fare un labirinto sonoro dove le sorgenti si spostano…”;  loro ci lavoravano sopra e, naturalmente, scoprivano effetti diversi da quelli che io avevo previsto; proprio questo scarto tra ciò che prevedi e ciò che trovi è un aspetto formidabile del processo creativo, specialmente se lavori con sistemi  analogici o meccanici… le macchine che citi erano basate su alcuni tipi di sensori (tolti da antifurto, fotocellule, rilevatori termici, ecc.) che sentendo qualcosa che cambiava (il calore, il peso, la luce…) producevano dei cambiamenti di un qualsiasi valore elettrico analogico: (watt, volt, …)

Un cavetto portava questi cambiamenti elettrici a un sintetizzatore analogico; bastava impostare bene un loop musicale e chiedere al sint di modificarlo sulla base di quei cambiamenti, che gioco era fatto. C’era una macchina che suonava  il colore degli occhi, una che si suonava sedendosi su una seggiola elastica e sculettando… La “macchia dell’amicizia” ha suscitato grandi entusiasmi: considerava i corpi come un conduttore elettrico e modificava un loop di suoni sintetici a seconda di come si modificava il valore della resistenza elettrica; un’intera classe scolastica in cerchio può darsi la mano; se tutti se la danno calorosamente, la macchina canta sempre più guizzante; ma se Giannino stringe malvolentieri la mano a Michela (perché pensa “bleah, una bambina, non voglio darle la mano…”) ecco che il ritmo si smoscia e la melodia scende di tonalità e di estensione…

 

Mi dicevi che alcune hanno anche una funzione terapeutica.

            Senza pretese taumaturgiche… Si tratta proprio della “macchina dell’amicizia”: in Francia l’hanno usata per la terapia con alcuni ragazzi autistici, con un uso individuale: toccando i due tubi che chiudono il circuito di debolissima corrente elettrica, il  soggetto è spinto a manipolare ed ascoltare gli effetti sonori; indugia, esplora, stringe i pugni intorno ai tubi… questo aiuta certi soggetti che sono chiusi a bozzolo nel proprio mondo interno; i terapeuti erano entusiasti, ma poi non hanno trovato i fondi per replicare questo dispositivo in piccola serie. Io comunque credo che molti strumenti musicali tradizionali potrebbero dare effetti utili, ad esempio semplicemente con un amplificatore che delocalizzi la percezione dell’effetto sonoro, spostandola dalle mani che esplorano a un metro più in la, dove c’è la cassa…

Al di fuori della musicoterapia, sono molto interessanti le ricerche di Francois Delalande (uno degli “eredi” di Pierre Schaeffer al GRM, che fa studi di tipo psicologico sulle condotte di esplorazione sonora) su questi aspetti nei bambini da zero a tre anni. E’ lui che mi ha fatto scoprire che l’esplorazione è maggiore e più creativa non solo se il risultato è poco prevedibile ma anche se è spostato spazialmente.

C’entra col concetto di interfaccia come specchio?

            Ogni tipo di interfaccia, psicologicamente,  è collegato all’identità, all’io, perché è uno specchio dell’azione. Ciascuno di noi sente di esistere, di esserci nel mondo, se alle proprie azioni corrispondono degli effetti percepibili; è così evidente che quando lo dico mi sembra di fare un’affermazione banale. E’ un aspetto essenziale del rapporto tra uomo e macchina. Si è molto parlato, ad esempio , del monitor del computer come specchio, come “specchio di Alice”.

Comunque fino ad ora noi due abbiamo parlato di interfaccia analogiche. Quando  inventavamo quelle macchine, ancora non c’era niente di digitale. Oggi hai potenzialità tecniche molto più ampie, ma occorre reinventare un modo per ritrovare quell’approccio creativo e ludico; quando mi guardo intorno mi sembra che l’onnipotenza che ci offre il digitale, invece che liberarci dai vincoli tecnici, ci abbia annichilito, come se delle limitazioni fossero indispensabili alla mente per sentirsi sfidata e poter creare. Molti della mia generazione sono rimasti “incartati”: facevano cose eccellenti e adesso sono rimasti con due misere carte in mano e non riescono a finire la vecchia partita per cominciarne una nuova; che peccato, oggi si possono fare cose formidabili, invece quasi sempre usiamo i computer in modo stupido.

Vorrei chiederti qualcosa di più rispetto al concetto di interfaccia, nel senso di linguaggio di relazione tra la persona e l'oggetto/macchina; cosa a hai tratto da queste esperienze nella tua vasta esperienza didattica ?

            ”didattica” è un po’ una parolaccia se parli delle mie installazioni; scusa, non è una questione terminologica, è la stessa differenza che c’è tra improvvisare jazz e solfeggiare il Pozzoli.

Un didatta, di solito, sa esattamente e dettagliatamente cosa vuole insegnare, e per questo scopo usa libri di testo, lezioni frontali… per cui un didatta è spesso barboso se comunica in modo nozionistico e pedante. Ma allora, per migliorare la situazione basta rendere la lezione più divertente? 

Secondo me cambia poco, se i contenuti vengono edulcorati con simpatici software e modellini… anzi,  la trappola è peggiore perché sembra meno pericolosa:  tanti musei scientifici hanno macchine che prevedono dettagliatamente il tuo comportamento, cioè ti programmano: le tue scelte, le considerano prevedibili, decidibili, divisibili in parti, incapaci di reinventarsi nuove regole durante il percorso. E’ esattamente quella che i cibernetici chiamano “macchina banale”. Dov’è il gioco? Detta più schiettamente: l’edutainment (il matrimonio incestuoso tra educazione e intrattenimento) contiene solo cultura ed intelligenza o nasconde una enorme dose di imbecillità?

Qualcuno potrebbe obbiettare che è più pratico imparare il teorema di Pitagora con un CD dove i quadratini colorati svolazzano sui cateti, piuttosto che con una lezione verbosa alla lavagna.

            Idem per le tabelline, le lingue o la chimica… Quel qualcuno avrebbe ragione sugli apprendimenti standardizzati, ripetitivi e formalizzati, dove sicuramente è meglio pedalare in discesa; ma quelli sono solo strumenti per giungere ad altri tipi di conoscenza e di coscienza; le cose importanti della vita, nessuno le impara così; sono strade che vanno in salita, ti ci devi fare gambe e polmoni, e allora cambia se stai facendo una bella passeggiata, faticosa ma piena di sorprese, paesaggi, compagnia, bivi, panorami… oppure se stai sgroppando su una cyclette come se tu stesso fossi una macchinetta.

            Le mie macchine, o meglio i miei dispositivi, non servono a “descrivere” il suono, servono a giocarci. Almeno, questo è il mio intendimento, a volte ci sono riuscito, a volte no, ma è quello che cerco. Il gioco che intendo io è piacevolmente faticoso, non “intrattiene”, sfida. Come quando si lancia una palla a un ragazzo: giocare a pallone  richiede una fatica tremenda, eppure viene una voglia naturale…
In generale i dispositivi scientifici che preferisco non descrivono il mondo dicendo : “ragazzo, impara: l’atomo funziona in questo modo” oppure: “ guarda, la fotosintesi funziona secondo questo modello molecolare…”.  Non mi piace quando ci si dimentica che la cultura  umana è un sistema di simboli che si formano in testa, che abita dentro ciascuno di noi. Per dirla con gli epistemologi, si fa spesso l’errore di mantenere l’osservatore all’esterno, separato dall’oggetto osservato. Diminuiscono la motivazione e il pathos, ci si diverte poco o niente.
Nei musei scientifici "didattici" molte macchine somigliano a un viaggio in autostrada, l’allievo deve partire dal casello “input” e arrivare al casello “obiettivi di apprendimento raggiunti” nel tempo più breve possibile. A prima vista è il modo più svelto ed economico, sembra anche il più attendibile perché basta qualche test per verificare se l’allievo è davvero arrivato dove vuole il docente. Sembra, ma non lo è affatto, anzi. E’ uno spreco di energie terribile, funzionava ai tempi dell’Encyclopedie, oggi sono accessibili troppe più informazioni di quante possiamo ricordarne, se ci saturiamo non riusciamo più ad elaborarle, quindi diventano perfettamente inutili. Diventeremmo solo ignoranti eruditi. Meglio liberare la mente dal rumore e imparare ad apprendere dalla sineddoche, dal campione, dal frammento.

Stavi dicendo che la cultura non è un viaggio in autostrada in cui vedi le cose dal finestrino…

           Io dico che somiglia molto di più a una passeggiata, che ci si deve perdere, che ci si deve distrarre coi dettagli, trastullare, interrogare con questioni apparentemente oziose… che si deve essere liberi di prendere una pista poi scegliere  di lasciarla  per  un’altra… Dico che la curiosità è il più serio dei progetti di ricerca. Per questo, probabilmente, la buona cultura non è un buon business, perché ha bisogno di sprecare tempo,  e per giunta ha poca necessità di sprecare energia e materia.

Per questo la tua casa editrice si chiama “ecologia della comunicazione”?

 “Ecologia” significa discorso sulla dimora, ma anche dimora come discorso. Qualche anno fa ho creato un modello molecolare di fotosintesi fiabesca, recitato da due attori.  I bambini erano emozionati, piangevano e ridevano per la fotosintesi, perché scoprivano profondamente, emotivamente che siamo fatti di aria, di acqua e di luce… Ti chiedo, qual è la fotosintesi “giusta”? questa, o quella di un professore serioso che scrive alla lavagna “C6H12O6” e fa imparare a memoria la parola “cloroplasti”?

La prima questione, su cui è facile trovarsi d’accordo, è: Quanti studenti ameranno l’ambiente dopo una tale lezione nozionistica e meccanicista?

Contemporaneamente a questa domanda, inviterei a farne una seconda, parallela, meno evidente ma non meno importante: dopo una tale lezione nozionistica e meccanicista, quanti studenti ameranno sé stessi, sapranno ascoltare le piste della propria curiosità  e vorranno coltivare la propria intelligenza? C’è un nesso tra comunicazione dell’ecologia ed ecologia della comunicazione, abitiamo nella comunicazione umana, dall’alba della storia della nostra specie. Siamo umani per questo.

E’ l’emozione, dunque, a fare la differenza?

L’emozione fa democrazia, e questo c’entra col concetto di interfaccia!

Questa la devi proprio spiegare…

            Immagina quel professore alla lavagna, abituato ad erogare solo output senza ascoltare e senza accogliere input dagli studenti. Un bel giorno, mettiamo, si innamora e da quel momento improvvisamente comincia a sostituire la lezione nozionistica e meccanicista con qualche bella metafora, sorride agli studenti, aspetta le loro domande, crea un clima dove apprendere è piacevole… cambia qualcosa di importante. Cosa, esattamente? Qualcosa che c’entra molto con la democrazia locale, quella di quell’aula, ad esempio: perché la fiducia uno se la deve meritare. Quanto lo studente può interagire?  ovvero: la lezione ha un interfaccia?  Applica questo stesso concetto nella democrazia spicciola e quotidiana degli uffici, dei servizi , dei luoghi periferici di decisione…

Il rapporto tra democrazia e interfaccia è abbastanza evidente, ma l’emozione…?

            Si dice: quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito.

Appena accettiamo che il cielo stia in un monitor (non è difficile, visto che abbiamo imparato a farcelo stare nella parola cielo), appena lo accettiamo, il dito è la freccina del mouse sullo schermo della volta celeste; ecco l’interfaccia più frequente. Bene, ogni tanto voglio essere quello stolto, guardando il dito… o forse pretendo di essere ancora più saggio di quel saggio, e cercare di capire come funziona quell’indice fallico proteso al cielo a decidere, lui solo, dove devono guardare gli altri.

C’entra innanzitutto la fiducia; se fossi in compagnia di un vero saggio zen in carne ed ossa, davanti a una nottata limpida di luna piena, avrei mille cose da imparare; come sarei silenzioso e modesto! Con gli ingegneri della Microsoft, ammetterai che la faccenda è un po’ diversa… Quindi una delle parti in gioco è la figura di chi indica…  ti ricordi quella canzone che faceva “ama chi ti ama, non amare chi ti vuole male…”?  ecco, consideralo uno slogan per le interfacce.

            Un’altra parte in gioco sei tu che guardi il dito:  ogni interfaccia chiede quella che la psicanalisi chiama “fiducia essenziale”, se sei pronto a fidarti sei pronto ad affidarti; altrimenti qualsiasi interfaccia, anche la più friendly, ti sembrerà ostile. Il computer si accompagna con cambiamenti di abitudini e perdita di sicurezze: come macchina da ufficio, ha portato disoccupazione e precarizzazione. Ecco che certe interfacce prevedibili, semplici, rassicuranti, stereotipate,  che a noi sembrano noiose, risulteranno preferibili per molte persone. In questo modo chi non è stolto diventa tale. Si spacca gli occhi per guardare la freccina del mouse a due spanne dal naso e non mette certo a fuoco sulla luna, che è troppo distante. E’ tipico in chi ha una scarsa confidenza al computer,  appena gli sposti due icone sul desktop non capisce più niente; quando l’interfaccia è uno specchio al negativo, che ti dice “imbranato! inadeguato! obsoleto!…”, la risposta naturale è tornare all’animismo e considerare il computer come un demone che ti vuole male.

Eppure oggi c'è questo netto spostamento verso l'utilizzo di comunicazione via computer: Cdrom, programmi interattivi, rete, a livello didattico o ricreativo; l'interfaccia però è quasi sempre costituita da tastiera, mouse e monitor, eventualmente con l'aggiunta di un joystick. In pratica così facendo, indipendentemente dal contenuto, l'azione resta sempre la stessa…

            So cosa ti aspetti che dica: il corpo, il gesto, il respiro che pilotano le macchine. Danzare tra le fotocellule, nuotare in una piscina sensibile… Ah, che bello, io ci ho lavorato molto in analogico, ho resistito  fino agli anni ’90, ma poi passando al digitale sono rimasto intrigato su cose più  basiche; ho provato voglia di usare quello che c’era, il PC più stupido e quotidiano,  per scopi artistici.

In questo spicchio di mondo, molti hanno un PC in casa: significa che sul tavolo hanno uno studio di registrazione, una cabina di montaggio video, una casa editrice…, tante cose che trent’anni fa avremmo voluto avere per  gridare e diffondere le nostre espressioni, solo che costavano centinaia di milioni, quindi ci siamo arrangiati con serigrafie e ciclostili. Ho scelto il mouse; non so se è stata la scelta giusta, ma è quella che ho fatto. Forse è stata solo una scelta di comodità, forse è vero che se hai il frigorifero pieno ti passa la voglia di scendere nel campo a zappare l’orto, e ti impigrisci… Se è così, chiedo scusa, ma forse non è così; io penso davvero che il mouse è un prolungamento del dito che idica “lì”. 

Ripeto, una differenza più importante è se il clik, in quel punto del monitor, genera un effetto più rassicurante o più evolutivo.

Credo che i più diffusi programmi per ufficio educhino alla stereotipia, all’insicurezza, che addestrino a ripetere pedissequamente le stesse operazioni. Così il PC diventa un mezzo di standardizzazione di massa. Io continuo a urlare che il PC non è una macchina da ufficio: è uno slogan, bisogna ripeterlo e ripeterlo, il computer non è una macchina da ufficio. Anche con tastiera e mouse possiamo e dobbiamo fare cose intelligenti, per usare questa macchina poetica che abbiamo sul tavolo, forse non meravigliosa ma sicuramente potente.

Detto questo, detto che a me il mouse non dispiace, ti invito a guardare la forma recente di qualsiasi televisore, lavatrice, telefonino, automobile… Sono tutti computer che sono scappati dallo scatolone grigio e si sono nascosti in giro per la casa… Ad es. se vai in palestra, l’interfaccia diventano i pedali della cyclette che mandano le misure al display. Santo cielo, ho comperato un forno da cucina e per programmarlo … io che sono professore universitario a Informatica ci ho passato mezz’ora sul manuale a decodificare alcuni passaggi. Meno male che poi è arrivato il figlio undicenne di certi amici e me lo ha spiegato…

Umiliante?

            Intendo dire che per quella generazione l’interfaccia digitale è “naturale”. Comunque: è umiliante? La prima volta può darsi, ma è una sana lezione di autoironia e ci rende migliori; è esattamente la condizione generazionale della maggior parte degli insegnanti elementari e medi  rispetto al computer;  poi gradualmente ti accorgi che siccome i bambini sono nati dopo, è naturale che evolutivamente siano più vecchi di noi. Deve essere così, dobbiamo augurarci che sia così. L’adulto è adulto per motivi più saldi, perché ha quel dito per indicare la luna, mentre i dettagli si relativizzano; siccome ho fatto i miei complimenti a quel ragazzetto, incoraggiandolo, credo di essere stato un adulto positivo, saldo, proprio perché non mi sono sentito affatto sminuito dalla sua maggiore adeguatezza davanti all’interfaccia del fornetto.  Uno dei buoni esempi da dare ai nostri figli è di non lasciarci inquietare dalle interfaccia troppo selvatiche e non inorgoglirci troppo quando ne addomestichiamo qualcuna; siamo solo all’inizio, nuovi animali tecnologici arriveranno a farci invecchiare entrambi.

Esempio?

            L’implantazione nanochirurgica di interfacce cocleari e retiniche; insomma, le cuffie installate direttamente dentro, e anche un monitor stereoscopico direttamente sui nervi… non siamo culturalmente pronti, sarà uno shock. Al solo pensiero sento che mi  viene il mal di testa.

Da alcuni anni crei Cdrom. Mi racconti quale è il tuo percorso e come utilizzi questo mezzo multimediale?

            Il percorso? mera riconversione professionale; per 20 anni ho saltato qua e là: teatro, installazioni, musica, educazione, libri, pubblicità… quando fai un po’ di tutto, in questo mondo sempre più specializzato, sembra che tu non sappia fare niente davvero bene.

 

Non è il tuo caso, hai avuto un certo successo…

            Appunto, qualche volta ho avuto il mio quarto d’ora; poi, ogni volta che cambiavo nicchia, dovevo reinventarmi i contatti, le situazioni per lavorare… Non ho fatto una gavetta ma sette o otto.

Quando sono arrivati i CDROM ho detto a me stesso: “sta a vedere che questo è un campo dove posso mettere insieme i diversi linguaggi che conosco”, ho speso tutti i soldi che avevo – e un altro bel  po’-  per affittare una legnaia in Franciacorta e trasformarla in uno studio multimediale, e mi sono buttato. Altra gavetta; il primo anno che ho imparato Director (c’era ancora la versione 5, era parecchio complicata) in certi momenti c’era proprio da battere la testa al muro… Adesso mi diverto un sacco, anche con le interfacce.

Qualche esempio ?

            Ieri ho realizzato dei test fintamente “seri” che contemplano tra le risposte dei “boh”, dei “proviamo”, o altri dove il bottone con la risposta più stereotipata  se ne scappa appena avvicini il mouse;  sono piccole cose, certo, ma aiutano a dissacrare certi luoghi comuni dell’istruzione programmata…

Raccontarle non vale, per capire dov’è il comico bisogna navigarci, ma coi miei collaboratori ieri siamo stati tutto il giorno a ridere fino alle lacrime; non capita a tutti di lavorare così, mi sento molto fortunato..

Comunque non posso risponderti con una regola fissa perché, per fare un CD Rom, ci metto almeno un anno, quindi posso fare solo produzioni grosse, (grosse relativamente alle mie forze, intendo con budget di minimo 50.000 euro e almeno 10.000 copie di tiratura); così da quando inizio a quando finisco sono cambiati hardware, software, competenza mia e competenza del fruitore.

Che consiglio daresti per chi invece lavora in piccola scala?

            Artisti, insegnanti, artigiani della comunicazione…? Più che ci lavoro, più che mi accorgo che macchina fotografica, registratore digitale e videocamera digitale sono elementi basilari.

Non puoi continuare a rubacchiare GIF e MP3 dalla rete.  Perché frugare nella pattumiera, quando hai tutto un mondo intorno di immagini e di suoni? E’ vero che tutto è di tutti, è vero che il remix è una forma di cultura, è vero che qualcuno particolarmente bravo ci fa cose ottime… ma è anche vero che alla fine vediamo molta robaccia tutta simile a sé stessa.

Ciascuno di questi apparecchi implica, per usarlo, diversi passaggi, diversi tipi di interfaccia. Prima l’interfaccia proprio dell’apparecchio, ad es. il mirino e i tastini della videocamera; poi l’interfaccia del programma di acquisizione dalla camera al computer; poi l’interfaccia del programma di montaggio, fino ai due telecomandi di chi vede la cassetta, per TV e lettore. In altri casi, ad es. la tavoletta grafica, vai direttamente dal gesto digitale al monitor, ma poi probabilmente apri Photoshop per correggere o comprimere il disegno. Insomma, prima o poi il mouse lo devi usare. 

La macchina fotografica digitale mi piace molto quando lavoro coi bambini, perché riduce questi passaggi a poche operazioni.  Uso apposta una di quelle vecchie Sony col floppy; scatti, infili il floppy nel PC ed ecco la foto sul monitor… salti un passaggio.

Cosa fanno i bambini con una fotocamera digitale?

            Ad esempio quest’anno faremo il primo Campionato del Mondo della Linguaccia, con alcune scuole austriache, italiane e slovene che si trovano nell’area di Tarvisio, aperto al resto dell’universo via web. Sono stati i bambini di scuola a darmi l’idea: l’anno scorso hanno fatto un bel lavoro sui ritratti digitali che si può vedere su www.tarvisiocomeaula.org; abbiamo fotografato gli occhi di 100 bambini, li abbiamo stampati ingranditi e poi abbiamo appeso 3600 poster con gli occhi in giro per le strade del paese. E’ stato formidabile, i bambini hanno “colonizzato” il territorio con un loro segno. Dunque; ogni volta che lavoravamo con la macchina fotografica, prima di fare il lavoro previsto, non potevano esimersi dal fare delle smorfie grottesche o comiche. All’inizio era una reazione simpatica, spassosa, ma che rischiava di restare abbastanza primitiva e stereotipata; mi sono chiesto se può evolversi in una forma d’arte, nel senso di un campo di ricerca che non finisce subito. Quest’anno vedremo come andrà a finire. Il maestro che impara dai ragazzi… è la lezione di Bruno Munari, che cerco di applicare coi gingilli digitali.

Bruno Munari, il grande designer da poco scomparso, che ha dedicato molto del suo lavoro ai bambini.

            In Italia chi si dedica ai bambini viene considerato un po’ come un intellettuale di serie B. Persino Munari stesso, è più famoso nei paesi anglosassoni, in Giappone, in Sudamerica, che non qui in Italia. Ha insegnato a rispettare il pensiero umano, a coltivarlo ostinatamente; così i bambini sono un serbatoio di stimoli e ricchezza formidabile anche per chi lavora con gli adulti.  Spesso imparo dai bambini delle cose che poi uso col pubblico adulto, magari le vendo a un corso per manager, che sono troppo indaffarati per "perdere tempo" a giocare coi propri figli.

Anche quando io sono presissimo, anche a costo di rinunciare a lavori pagati bene,  non ho mai smesso di lavorare in alcune scuole. E’ un respiro senza il quale mi si asfissiano le idee.

Cosa ti ha lasciato Munari?

            Quello che ha lasciato a tantissimi che lo hanno conosciuto. Milano ne è piena, migliaia di persone che possono dire “io ho lavorato con Munari”. Il salto al digitale, però, è delicato; molti pensano che il suo modo di lavorare, col computer, non possa funzionare.

E’ vero?

            Io dico di no, ma questo vale per me, ognuno cerchi la sua strada.  Una sua frase mi piace particolarmente, e la tengo scritta appesa in studio: “pensare confonde le idee”. 

Amo molto questa sfida a smontare e rimontare le logiche, mi sforzo di applicarla anche se è esattamente l’opposto di quello che cercano di inculcarci ogni giorno in questa epoca di omogeneizzazione dei pensieri.  Munari è stato un grande maestro perché mi ha dato sia la luna che il dito per indicarla.

Altri “maestri”? Altre tracce culturali?

            L’esperienza di un lungo lavoro psicoanalitico: ascoltarsi serve per ascoltare, se non hai una bella “capacità” interiore, puoi avere delle idee creative interessanti, ma non lo spessore umano per coltivarle e sorreggerle. Dai bambini imparo davvero, non è un’affermazione retorica. Per quanto riguarda i Maestri con l’emme maiuscola, sono tanti ma sono un discepolo indisciplinato, faccio prima a dire chi ha influenzato le mie pragmatiche. La musica concreta, nel senso di usare il registratore come giocattolo, del comporre partendo da un suono e ascoltare cosa succede manipolandolo. La musica ambiente, nel senso di Murray Schaffer  di pensare ad un design acustico del mondo. L’approccio di John Cage …

Tutti musicisti…

            … mi fido più dell’orecchio che dell’occhio; l’occhio è più facile da imbrogliare e intorno a noi c’è troppa cosmesi, troppa epidermicità, troppa superficialità. So che, a dirlo, è quasi un luogo comune, ma è una sensazione che sento molto intimamente. In questi ultimi anni poi la banalità mi sembra particolarmente tossica. Ogni sera mi arrabbio con la TV, mi scandalizza che certi imbecilli siano pagati per fare i pirla così spudoratamente. Mi scandalizza che nessuno si scandalizzi. Quel che è peggio è che, se mi sento stanco o mi distraggo, essa mi contamina, perché di questi tempi restare critici è faticoso, lo sdegno si perverte in snobismo e degenera in accondiscendenza. Allora spengo, chiudo gli occhi ed apro le orecchie, faccio qualcuno dei giochi di ascolto di Murray Schafer.  E’  come se il mio corpo, piatto, tornasse ad avere uno spessore.

Anche quando lavoro uso l’orecchio. Anche quando faccio cose assolutamente senza audio (come questa intervista on line) mi viene da pensare un modo “acustico”.

Cioè?

            Di solito si usa l’espressione “andare a orecchio” in senso negativo. Invece a me sembra una buona strada pensare al ritmo con cui si succedono delle immagini, scrivere la lingua scritta con il fraseggio di quella parlata, creare dei “ritornelli” in uno storyboard…. 

Ad esempio, spero che questa intervista sia stata orecchiabile.

________________________________

Marco Geronimi Stoll (Luino, 1954)

Insegna Nuovi Media all’Università Statale di Milano (Polo Tecnologico di Crema) e ha uno studio di produzione multimediale in un cascinale della Franciacorta. Per molti anni si è occupato di dispositivi analogici per suscitare l’esplorazione sonora: macchine interattive, giocattoli musicali, giardini sonori…  Per saperne di più: www.geronimi.it

Tra le numerose pubblicazioni in forma di libri, Cdrom e supporti audio:

Il bambino tra i suoni; Casa Editrice Ricordi 1985

Ambiente, lezione numero zero; Co-autori: Bruno Munari, Giovanni Belgrano, Umberto Cattabrini ed. ITEM 1987.

Frammenti di Luna; con Sara Cerri e Sergio Staino, Teatro musicale da camera per ombre cinesi. Ed. Ricordi 1988

Nei disegni di una foglia ambiente, lezione di ambiente numero uno; Co-autori: Bruno Munari, Ersilia Zamponi, Albert Mayr, Giovanni Belgrano, ed. ITEM 1988

Secondo ambiente; Co-autori: Bruno Munari, Francois Délalande, Giovanni Belgrano, Ersilia Zamponi, Umberto Cattabrini. edizioni ITEM 1989

Come insegnare la musica senza saperla; Curriculum musicale nella scuola d’infanzia. Ricordi 1989

What do you work for?  Foto di Armin Linke, ed. Marco Geronimi Stoll 1998

Fare da grande CDROM sul mercato del lavoro per i giovani; ed. Marco Geronimi Stoll 1999

Sguardo Fertile  CDROM sul mercato del lavoro femminile; ed. Marco Geronimi Stoll e Provincia di Brescia1999

Cambiamo Colonna Sonora  CDROM sull’inquinamento acustico; ed. Marco Geronimi Stoll e Comune di Milano, 2002