primo capitolo del mio libro sullo smarketing
correggetemi i compiti:
Sto finendo il libro sullo smarketing su cui sto lavorando da un paio d’anni.
Per ora è solo un libro del secondo millennio: un tizio solo soletto elabora un suo pensiero: non basta.
Un testo sullo smarketing deve essere, per natura, collettivo, non fosse altro per il migliaio di allievi che mi hanno insegnato in giro per l’Italia.
Nell’attesa di metterlo on line e farmelo correggere da chiunque, è il caso di discutere il primo capitolo, quello “ideologico”, con premesse e motivazioni.
Eccolo, buona lettura; qualsiasi critica è bene accetta qui in fondo o su twitter #libro_smkt
Anteprima provvisoria di Marco Geronimi Stoll
Più spendi, più sei ricco; più hai, più sei…
se ti travesti hai personalità, se sei egoista sarai amato. Meno pensi al futuro, più meriti ammirazione. Se sei più aggressivo, avrai più gregari. La colpa dei tuoi problemi è di chi è socialmente inferiore.
E soprattutto: se sprechiamo molta materia ed energia il mondo diventa più ricco, comodo e bello.
Sono stupidaggini, ma ce le hanno inculcate; il senso comune è un prodotto artificiale. Su questa cospirazione illusionista si regge l’intera economia globalizzata, il pubblicitario più bravo è quello che riesce a immergervi in questa fiaba triste, in cui siamo tutti ubriachi e prigionieri. Perché sembri vera occorre ripeterla cento volte al giorno ma sempre in modo nuovo, con molta creatività e intelligenza.
Ma può un uomo tentare di essere creativo e intelligente pur insultando la propria mente nel suo compito principale, cioè scegliere lo scopo dei propri sforzi? Io non ci sto, io diserto.
Io mi sento molto più ricco in bici che su un SUV da 8 km/litro; e anche molto più intelligente. Voglio raccontarlo a tutti. Anzi, devo raccontarlo a tutti.
Elenco ovvio
Se state leggendo questo libro probabilmente siete già d’accordo, ma per molti quest’elenchino non è affatto ovvio, quindi precisiamo che preferisco:
la filiera corta, l’autocostruzione, la condivisione, la cooperazione, la lealtà con l’acquirente, la sostenibilità ambientale, il baratto, l’abolizione dei diritti d’autore, il software libero, il riuso, la riparazione, il commercio equo e solidale coi paesi del sud del mondo, la responsabilità sociale ed ambientale delle imprese, il piccolo che di solito è bello, il bello ma solo quando non è cosmesi o prostituzione. In definitiva: la civiltà, la consapevolezza e la responsabilità.
Sono scelte considerate come antieconomiche dal senso comune artificiale, oggetto delle battutine da bar di quelli che fanno gli spiritosi in play back: scelte di nicchia, economicamente regressive, psicologicamente depressive, anti-estetiche e anti-edonistiche; insomma un po’ sfigate, tipo la maglietta di lana che è anti-sexy mentre alzare il riscaldamento lo è.
Ma diventano cool e must appena “sfondano”: scelte che 10 anni fa sembravano pazzie da integralisti verdi, diventano ecochic, green fashion, ecodesign. La sostenibilità ambientale è, già dal 2009, il terzo criterio per importanza nella scelta d’acquisto in Italia, preceduto solo da prezzo ed efficacia; è importante “molto” per oltre il 63% degli intervistati1.
Sarebbe divertente inventarsi un programmino per associare qualsiasi parola un po’ trendy con un prefisso casuale tipo eco- green- slow- o bio- (organic in inglese), magari con un po’ di post- e di neo-; ne uscirebbero decine di idee finte nuove: biofitness, green management, slow look, ecovacchetta, bio-leader, green conquer, eccetera.
Intanto testate più serie scoprono che è innovazione d’impresa, resilienza alla crisi, green business, NTE, FER…
Il confine tra sfigato e figo dunque non è nelle pratiche o nelle prassi ma dipende unicamente da chi ha il potere di decidere il punto di vista.
Ci illumina (e ci diverte) scoprire che questo potere si manifesta nel mettere una esse davanti alla parola femminile più arcana e profanata.
Noi per rispetto della Dea Madre la togliamo di lì e la mettiamo davanti a marketing. Forse c’entra col fatto che stiamo passando in questi decenni dall’età del ferro all’età del silicio, questa società complessa e liquida ci costringe ad uscire da vari millenni di patriarcato.
La stessa esse, mettiamola anche davanti a target, a budget… che diventano starget, sbuget. È un gioco divertente che con tre o quattro parole diventa davvero illuminante.
Suggerimenti per i criticoni
C’è una certa difficoltà intellettuale nello scrivere su questo tema, vi sarà facile contestarmi.
Metà delle cose che leggerete sono ovvietà al limite del banale, peccato che ce ne dimentichiamo proprio quando ci sono delle scelte da esercitare. E’ come qualcosa che sta troppo vicino agli occhi e quindi lo vediamo sfocato; contestatemi che metà delle questioni che agito sono temi già detti e ripetuti, che tutti sappiamo già: avrete ragione; ma io preferisco essere il bambino che grida che il re è nudo, piuttosto che qualcuno degli adulti intorno a lui che sprezzanti gli rispondono: abbiamo gli occhi anche noi, cosa credi?
Anche l’altra metà di queste pagine é facile da contestare, perché suggerisco spesso di fare il contrario delle regole che vi raccomandano nei corsi di marketing “seri”, i cui principi muovono budget miliardari di aziende potenti più degli stati. Al criticone basterà dire che se tante aziende vincono col marketing, significa che funziona. Ammesso e non concesso che sia ancora vero, certo: aiuta i pesci grandi a mangiare i pesci piccoli.
Infine attribuitemi il cliché del “rivoluzionario”, del comunicatore trasgressivo, che rompe gli schemi: è abusato in generale e in particolare tra i pubblicitari puzza di narcisismo lontano un chilometro. Metà dei manuali di pubblicità cominciano dicendo che il marketing è morto, ma poi lo ripropongono in una forma innovata, naturalmente per vendere più roba in modo più convincente.
Non vogliamo rifondare il marketing, vogliamo vivere senza
Tu che leggi probabilmente sei uno del milione e mezzo di eco-artigiani, contadini bio, installatori di pannelli solari, artisti fuori mainstream, ristoratori a km zero, stilisti del riciclo,…
Tu fai parte di un mondo che in Italia dà lavoro molto più della FIAT (beh, ormai ci vuole poco).
La tua è il tipo di azienda che produce più posti di lavoro per somma investita e risente della crisi meno di molti altri settori; spesso è terapeutica degli squilibri della società e del singolo individuo.
Qualcuno di voi economicamente se la passa discretamente, ma quasi tutti gli altri in banca hanno una sofferenza, spesso piccola ma cronica perché incompatibile col basso valore aggiunto della piccola scala e della filiera corta: faticano a riempire l’agenda o a vuotare il magazzino.
Se vale anche per te, allora vorresti far conoscere la qualità di quello che fai e trovare abbastanza clienti per una sussistenza dignitosa, ma non sai come incontrare chi ti cerca, anche se la richiesta del mercato cresce sempre di più.
Intanto la “gente normale” è immersa nel consumismo e riempie ancora il carrello di merci pessime e ad alta impronta ecologica, a un prezzo solo apparentemente migliore.
Secondo il 99% dei manuali di marketing (specialmente quelli che nel titolo hanno parole come business, successo, vendere, vincere, conquistare…) basterebbe applicare alle vostre esigenze le tecniche della pubblicità. Invece non funziona.
Da 35 anni comunico e insegno a comunicare e ho scritto queste pagine per dimostrare che ciò che vi serve non è la pubblicità, è qualcosa che negli anni ’90 ho pensato di chiamare “smarketing”.
Lo scopo è contribuire alla sostenibilità attraverso il sostentamento aiutando voi artigiani, artisti, agricoltori ecc. ad incontrare l’acquirente che vi sta cercando e che vuole preferirvi.
La diserzione è un’arte leggera
Un buon disertore quando scappa su in montagna dai partigiani, può portarsi dietro una buona quantità di armi e munizioni: sembra una buona idea, invece comporta un pericolo.
Tutti gli strumenti esercitano un nascosto comando verso chi li usa: provate a piantare dei chiodi col cacciavite.
Tra tutti gli utensili, le armi e il marketing sono particolarmente psicoalteranti, perché modificano improvvisamente e drasticamente il potere di chi li impugna. Tu credi di comandare alla rivoltella e invece è lei che comanda te, perché appena la impugni sei un altro (credi che essa sia il mezzo e invece è il messaggio, che sia l’hardware invece è il sistema operativo, che sia il pretesto invece è il testo, insomma credi che essa sia solo uno strumento invece ti catapulta in una logica in cui lo strumento sei tu). Il curioso è che plagia la tua volontà attraverso l’espansione formidabile del tuo ego; con un bel media budget, è uguale.
Quando un dispositivo ti offre un potere innaturale sugli altri, muta la percezione delle relazioni, che diventano molto più asimmetriche, quindi lo stesso scenario ti appare assolutamente diverso; cambi drasticamente psicologia e con essa la cibernetica delle scelte, la strategia e gli scopi.
Guai se il soldato inquadrato ed addestrato a quell’idea militare del mondo, nel momento della sua diserzione “regalasse” ai partigiani l’idea che vince il più forte e non il più agile, il più ubbidiente e non il meglio pensante, lo spregiudicato e non il rispettoso, chi va avanti guardando solo la meta e non chi procedendo espande i propri sensi e cerca di percepire ciò che non è evidente… Guai: anche se così vincessero la guerra (e non è poi così probabile) sicuramente poi non vincerebbero la pace (quante rivoluzioni tradite ce lo insegnano).
Se però il militare disertore svela ai partigiani alcune specifiche tattiche e trucchi dell’esercito occupante, i suoi punti di forza e di debolezza, se ne rivela la logistica, l’approvvigionamento, se “ruba” alcuni strumenti leggeri ed agili, ecco che il suo aiuto diventa fondamentale, cambia fortemente le probabilità di successo e colma notevolmente la disparità tra le forze. Insomma probabilmente è più utile rubare una mappa topografica che un carro armato, oltre che più comodo.
Nel capitolo 7 “Schioppi contro carri armati” potete approfondire cos’è utile o disutile, però il discrimine è sottile e mutante, stiamo parlando del confine tra marketing e smarketing. Propongo di partire dallo scopo più che dagli strumenti. I partigiani della comunicazione non vogliono vincere l’attenzione di chi li ascolta come se fosse territorio di conquista. Non vogliono manipolarne le intenzioni, seducendolo o sviandolo; preferiscono tessere con lui una relazione leale di reciproca alleanza paritetica, che durerà nel tempo e quindi farà da base solida a una conversazione.
Occupy conversations
Questa conversazione è economica nel senso nobile del termine (lavoro, cultura materiale, scambio di beni d’uso, mutualità, beni comuni). La parola economia viene dal greco οἶκος (oikos), “casa“, così come la parola ecologia; L’eco-logia è il logos (λόγος), il ragionamento, l’esercizio delle scelte sulla nostra comune dimora; l’eco-nomia è il nomos (νόμος), le regole che l’amministrano. Mentre noi diciamo “occupy Wall Street”, sono gli economisti e i finanzieri che occupano la nostra dimora. Occorre scacciarli, io propongo di farlo cambiando le regole dei discorsi sulla dimora comune.
Cosa mettere nello zaino del pubblicitario disertore
Nella santabarbara della pubblicità commerciale, nel momento della diserzione, potrei rubare una quantità formidabile di armi: seduzioni, retoriche, trucchi verbali, accorgimenti grafici… Sono le tecnicuzze con cui sappiamo rendere sexy un motore a scoppio o rendere vecchio il tuo vestito comprato l’altro ieri. Quali di queste armi posso mettere nello zaino per venire da voi partigiani nel modo più utile, e quali invece devo lasciare lì perché farebbero solo danno?
Salverei tutti quei mezzi che permettono a te (piccolo e buono) di essere riconoscibile, trovabile, semplice e chiaro.
Sono pochi, economici e semplici; meno hai soldi, più queste tecnicuzze sono importanti: un volantino A5 su carta riciclata, se è chiaro, riconoscibile e suscita voglia di leggerlo, è infinitamente più efficace di una brossura patinata di 50 pagine piena di foto stereotipate e di illeggibili pagine in corporatese.
Escluderei tutti i trucchetti che trasformano i cittadini in quella che i cibernetici chiamano “macchina banale”: quel meccanismo che quando riceve un certo input, risponde in maniera prevedibile a prescindere da quelli che sono i suoi stati interni (cioè i nostri stati interiori). Uso qui il termine nel preciso senso impiegato nella teoria degli automi dove, come dice Heinz von Foerster : “la macchina banale è caratterizzata da una relazione input-output fissa, mentre nella macchina non-banale l’output è determinato dall’input e anche dallo stato interno della macchina.” 2
Come fanno a mutarci in un dispositivo robotico che esposto a uno spot sente automaticamente la voglia di comprare una merce? Si usano le cose più umane: il bello, l’eros, la poesia, la natura; i richiami all’amore, alla stima altrui, all’amicizia; la musicalità, i cromatismi, il ritmo, il suono delle parole. La curiosità, il comico, l’intrigante, il sorprendente; la voglia di piacere all’altro sesso, il desiderio di essere ammirato, il bisogno di autostima. Insomma lo stato interno della macchina.
Attenzione, questi non sono strumenti (argomenti, retoriche, metafore…), sono i campi di battaglia; sono i territori da riconquistare, regioni del nostro oikos che l’occupante controlla con le sue parodie e che necessitano della liberazione da parte di noi partigiani.
Bisogna saper scegliere, io molte scelte le ho fatte. Molte, non tutte: siamo tutti in un processo storicamente complesso e io sono solo uno dei molti protagonisti. Comunque lo zaino è questo libro che avete appena aperto.
La maggior parte sono scelte già collaudate, ma ogni volta cambia il contesto, la situazione e gli attori. Quindi quello che troverete in questo zaino è quasi sempre una soluzione migliore; il marketing pretende di essere una scienza, lo smarketing no, è solo un’empiria, una raccolta di tecniche che funzionano abbastanza bene, per sua natura è perennemente in corso d’opera. Verificate il terreno e stare bene attenti alle risposte che via via giungono dalle vostre azioni.
1GFK-Eurisco Social Trend 2009
2da Heinz von Foerster, Sistemi che osservano Corsivo mio. Astrolabio, Roma 1987 pag 212
Pietro
Letto!
L’inizio promette benissimo. Complimenti.
Posso darti solo contributi di facciata.
Scorrevole a parte la prima parte della metafora del soldato che ho trovato un filo ingarbugliata forse per i troppi esempi delle cose che non dovrebbe regalare (e scommetto che ti sei limitato 🙂 )
Per il resto un paio di refusi (un fashion senza i, probabilmente una esse di troppo in questa frase “Anche l’altra metà di queste pagine sé facile da contestare” oltre a questa “Molte, non tutte, siamo (sono?) in un processo e io sono solo uno dei molti protagonisti.”
Marco
Grazie. Corretti già i refusi, ma ce ne sono tanti altri…
Quanto alle cose che non si porta il disertore nello zaino, l’ho un po’ alleggerito, ma se mai lo articolo meglio, perché è il centro della metafora.
Barbarella
fortissimo, mi stai aprendo un mondo
Marco
Silvana mi posta sulla mail per dei refusi; buona idea, non vi sto usando come correttori di bozze ma per dibattere i pensieri (se c’è qualcosa da dibattere). Quindi qui ditemi se secondo voi la cosa sta in piedi; se poi vi vien voglia di fare qualche correzione spicciola, usate pure la mail: marco@smarketing.it. Grazie
PasqualeC
sì ma se tu mi aiutassi a rendere un po’ più sexy dei collettori solari, mi cambieresti la vita e aiuteresti anche l’ambiente
Marco
Il sole è già mooolto sexy.
sexy come parola va bene per scherzarci, ma che il tuo collettore debba essere attrattivo-seduttivo non ci porta lontano. Idee tipo una bella ragazza appoggiata? banale, maschilista, conformista, distraente (guarderebbero lei, non il pannello) e pure mal mirata per decisori colti in cui uno dei decisori oltretutto è la mogle.
Se vuoi un aiuto professionale, chiedici una consulenza.
Se no aspetta il libro e vediamo se non fai anche tu uno dei 10 errori frequenti.
Maria Beatrice Servi
Ammiro e invidio la capacitá di smontare gli ingranaggi teorici della disciplina. Io cerco di fare lo stesso nel mio campo, ma purtroppo inciampo nella pratica, e mi ritrovo con progetti molto convenzionali. Il nodo forse è questo: come fare a fare bene, senza cadere nel radical chic?
Marco
Radical chic non è una botola, è un’etichetta.
Le etichette spesso vanno sovvertite, giocandoci: magari la risposta è diventare radical choc o radical kitsch o medical chic… giocaci tu, magari la soluzione è lì.
In realtà la risposta giusta è quella apparentemente banale, che occorre essere sé stessi: se uno ha un’animo chic (nel senso di eleganza, raffinatezza…) che resti tale e magari si compiaccia, perché no? L’importante è che sia una differenza, non un cliché
Tutt’altra questione è lo snobismo del tirarsela, darsi le arie, sentirsi migliori… sotto ogni bandiera c’è almeno un imbecille, qualsiasi sia la bandiera.
MA la questione sono i progetti molto convenzionali. Per trent’anni mi sono illuso di “cambiare le cose dal dentro” e ho preso solo bastonate. La scelta davvero radicale (e fatalmente un po’ snob perché un po’ d’avanguardia) è che occorre mettersi in proprio, mettersi in rete, fondare progetti alternativi. L’economia delle relazioni, l’economia resiliente. Che sembrano radicali ma sono solo buon senso.