Durante la discussione di Torino ho ricevuto da parte dell’economista Giulio Stumpo una critica al concetto di smarketing che secondo lui “è generico: sì, è un’idea carina ma chi la racconta ha un’idea un po’ superficiale di cosa sia davvero il marketing, se non in Italia almeno negli altri paesi; … esiste anche un marketing delle relazioni… esiste anche un marketing non convenzionale che è quello che serve al mondo del teatro”.
Parte della risposta era già nel mio intervento (potete leggerlo qui http://smarketingperilteatro.blogspot.com/ dove ci sono vari link sulla giornata di ateatro.it)
Se avessi avuto un po’ di tempo (avevo già sforato sui minuti) avrei precisato alcuni concetti che dico ora in questo blog.
Da quel palco a Torino non ho avuto intenzione, in quei pochi minuti, di fare una guerra di religione su questioni nominalistiche sulla pelle delle compagnie teatrali, che di questi tempi di disastro nazionale hanno problemi più seri.
Chi vende cibo per l’anima deve scambiarlo con del cibo per il corpo; nei millenni l’artista è sempre campato così.
Anche oggi l’anima di tutti noi ha fame, ma non se ne accorge; guardiamoci in metropolitana dopo una giornata di lavoro, migliaia di persone zitte con la faccia triste e stanca. Ridono solo i ragazzini e gli stranieri, e gli altri si seccano; tranquilli: prima o poi anche loro diventeranno alienati come tutti gli altri.
Il non-pubblico è espropriato del proprio patos; saziato di vuoto, come un’anestesia; saziato di desideri insodisfacibili, di significanti materializzati in merci banali che finiranno in pattumiera dopo pochi giorni, ma intanto hanno rubato il posto di altri significanti, più densi simbolicamente.
Il consumismo indotto dal marketing è il principale colpevole di questa ottusità imperante: i teatri sono vuoti perchè il pubblico sta quasi tutto sul divano televisivo a vedere stupidaggini: è una considerazione banale? certo, come tutte le cose così ovvie che non le vediamo neanche più.
1. siamo in un’epoca post-borghese
i pubblicitari, come tre quarti dei professionisti seri in quest’età di transizione (ingegneri, designer, umanisti, architetti… e appunto economisti del marketing per la comunicazione pubblica…) tentano di usare le loro tecniche e metodi in modo alternativo, critico e intelligente ma dibattendosi nei lacci degli statuti disciplinari e con quegli apriori tecnici che, fino dal nome con cui si autodefiniscono, rivelano la matrice di provenienza.Non è un problema solo del marketing, è un problema enorme e generale delle professioni in questa epoca digitale.
Stiamo per entrare in un’epoca post-borghese (o forse iper-borghese, dipende da cosa si intende per borghesia) perchè sarà a bassa delega tecnica, a scarsa delega mercantile, ciascuno diventerà, almeno un po’, il terziario di sé stesso (tipo il contadino che vende la verdura ai GAS via internet); è esattamente il contrario di quello che ci si aspettava pochi anni fa, quando si andava verso le iperspecializzazioni di dettaglio.
Siccome noi borghesi siamo nonostante tutto ancora un pochino colti, inconsciamente lo sappiamo già: abbiamo già cominciato a toglierci la cravatta e a sognare un orto in campagna per farci i pomodori da soli…
2 mitigare o rivoluzionare?
Riconosco in quella discussione le due strade del cosiddetto Green Marketing, quella del cut e quella dello switch, ovvero se scommettere sulla via del tagliare i consumi gradualmente (in maniera di avere, ad esempio, un’auto meno inquinante che ci faccia continuare colla logica dell’auto privata ma riducendo il danno), oppure se invece darsi da fare per il cambiamento drastico di stato (ad esempio scegliendo di andare in bicicletta). Non sono solo due diversi pareri, sono due diversi modi di pensare e comunicare e quindi di usare le tecniche.
Quello di cui parliamo mi sembra lo stesso bivio: scegliere tra lo smarketing dedicato al cambio radicale di paradigmi e il marketing mainstream ma buono che tenta la moderazione degli effetti nefasti della pubblicità sul nostro immaginario promuovendo l’arte e la cultura in modo civile. Tanti auguri ai secondi, ma io sto coi i primi; vedremo fra alcuni anni chi ha davvero sprecato più energie e chi ha riportato effettivamente risultati più duraturi sui tempi lunghi.
3 non scegliere non è una scelta
Il pubblico che guardava me e Stompo, in sala, probabilmente pensa che il teatro si salva solo se percorriamo in parallelo entrambe le strade; ha certamente ragione, tuttavia fare gli anfibi è impossibile, almeno per me lo è. Posso calarmi nei panni di chiunque, ma poi devo tornare nei miei. Ciascuno di noi non può che scegliere: o mezzi, retoriche e budget mainstream o mezzi, conversazioni e squattrinamenti dal basso.
Se siamo generatori di idee scegliere è l’unica strada, chi sta fermo davanti al bivio perde creatività.
4 Bisogna essere bravi? giusto, ma in cosa?
Questo comporta anche uno sbilanciamento della reciproca legittimazione dialettica; il direttore di un’orchestra filarmonica può anche dire che i jazzisti non sanno suonare secondo le regole del contrappunto occidentale. Viceversa il jazzista non può rispondergli con la stessa argomentazione: significa che lui ha torto o che il parametro scelto per misurare la qualità è inadeguato?
5 Il marketing è un’ideologia
Io penso che il marketing oggi sia una ideologia ( anzi che sia l’ -ismo imperante di questa epoca) e che sia il contrario esatto di quel mercato colto e avventuroso degli scambi (tipo il mercato nel mediterraneo al tempo dei fenici) che c’era prima della modernità.
A proposito, lasciamo perdere il “marketing relazionale”: un ossimoro, se le relazioni umane sono calcolate per vendere merci.
6 Lo smarketing è un’ autodifesa,
quindi è un’empiria (partigiana e di sopravvivenza, quindi agile e bisognosa di capacità improvvisativa); mi sento autorizzato di parlare del marketing in maniera generica, a costo anche di essere polemico con le persone perbene e sagge che ci lavorano dentro onestamente; è un po’ come criticare il Vaticano davanti a un prete bravo: se è davvero bravo, mi dà ragione.
7 Il paradigma del marketing è comunque il consumismo
Scopo del marketing è vendere roba; peggio: convincere la gente a sentire bisogno di comprare roba. Questo mondo consumista in cui sprechiamo materie prime ed energia come se avessimo 5 pianeti a disposizione, è frutto del marketing.
Uscendo dalla discussione specifica posso parlare più in generale, senza voler offendere nessuno.
No, non esiste merda buona da mangiare, neanche coi cucchiaini d’argento.
E se qualcuno, stufo o imbarazzato di vendere merda, per vendere il migliore dei cioccolati userà media, retoriche e budget coprofagi, comunque io li rifiuterò.
carlo
Bravo, Marco
sul concetto di marketing c’è molto movimento.
Il post di Fred Wilson
http://networkedblogs.com/eUxld dice
“il marketing sia la cosa che fai quando il prodotto/servizio fa schifo, o quando riesci a guadagnare così tanto su ogni cliente marginale che sarebbe folle non investire un po’ per acquisirlo.”
a cui ha risposto Seth Godin che Marketing ≠ Advertising…
Marco
si, la madre di tutte le battaglie è qui
http://www.avc.com/a_vc/2011/02/marketing.html
Lui queste cose le dice alla Harvard Business School. Da una parte mi fa piacere che queste opinioni abbiano un imprimatur e una leggittimità che in Italia il mondo business se le sogna, dall’altra, però, la logica è sempre quella della competizione a chi vende di più e meglio, ancora dalla parte delle aziende e non del cliente.
Ora non voglio approfondire troppo in questo post dedicato specificamente al teatro.
La cultura ha un marketing tutto suo, di solito a ROI negativo. Il suo prodotto è difficile da vendere, nell’accezione di Fred Wilson fa parte dei prodotti che “fanno schifo”; e infatti non è né un prodotto né un servizio, è un processo.